Aprile
- Andrea Russo
- 12 mag 2021
- Tempo di lettura: 3 min

Lo sentii uscire.
Non mi diceva più dove andava. Nei nostri pomeriggi, trascorsi in quello che sembrava essere il mondo intero, non vi era mai stato spazio per i segreti, per i silenzi. Le estati viaggiavano sul vago chiarore dell’acqua. Avevamo costruito lì il nostro rifugio, davanti a un fiume. La terra edificabile può riservare opportunità inaspettate; basta possedere la voglia, la tenacia di afferrarle. Una casetta adorabile, una cucina in stile liberty, con un grande tavolo rifinito in legno al centro della sala. A destra, la luce entrava da una finestra, che a sua volta, spalancava il sipario verso colline che ci separavano dalla città più vicina. Piccoli raggi zigzagavano sulle varie pietanze durante i pranzi fra amici e familiari. Suppellettili, soprammobili e centrini; un sogno fatto di carne, poggiato sulle cose.
Abbracciavamo l’avanzare degli anni con carezze che capivamo soltanto noi due. Un matrimonio subordinato alla nostra unione. Sapevamo perfettamente dove iniziavano le identità individuali di ognuno, e avevamo imparato a unirle sotto le coperte. Due anni dopo esserci sposati, giunse la prima vera crisi, fu tremenda. Lui era diventato sfuggente, il suo lavoro lo costringeva a trascorrere settimane lontano da me. Quando rientrava era taciturno. Fissava gli spazi bianchi fra le pagine di un libro, o stuzzicava continuamente i ceppi nel camino, attratto dai ghirigori delle scintille impazzite.
Le notti si susseguivano fra sonni che sapevano di attesa. Il proprio corpo, senza un altro che lo riconosca, si giunge a sentirlo estraneo. Un involucro entro cui le parole non sanno più tingersi di comunicazione e temi il pensare, anche le più innocenti congetture. Trascurai mia madre e gli amici che, fino a quel momento, avevano rappresentato la totale onniscienza della mia emotività.
Fu proprio davanti al camino, tra due bicchieri di rosso e una cena lasciata a raffreddarsi sul tavolo, che trovò il coraggio di confessarmi il suo tradimento. Gli occhi di un uomo pentito sono uno spettacolo che, se non hai mai visto, non puoi saper raccontare. Lui sentiva insopportabile l’idea che io sarei riuscita a darmi la colpa di tutto.
«È stato solo sesso, per quanto possa valere.» e lo disse guardando una coperta poggiata sulla sedia. Ma io ero lì, in piedi davanti alla sua vergogna.
Ebbene superammo anche quello e ci sentimmo ancora più uniti dopo esserci riusciti, perché sul rispetto, su ciò che erigi su di esso, puoi poggiare anche le sventure più schiaccianti. I macigni smetteranno prima o poi di rotolare e se non ti hanno investito, ne avrai fatto riparo, scudo.
Tornai alle mie mani. Non stavano mettendo in ordine, scambiavano soltanto la collocazione di calzini con altri calzini. La valigia non perdeva nulla del proprio peso. La tenda ondeggiava dolcemente, sulle note di un aprile stranamente freddo.
Aveva chiuso la porta. Era andato via senza fare il minimo rumore. Una lacrima andò a baciare la foto sul mio passaporto.
La camera da letto si trovava proprio in fondo al corridoio, la cui porta, quando era chiusa, veniva illuminata dai flebili raggi del primo pomeriggio. Oltre la soglia mi giungevano segnali solidi, fermi: stava disfacendo le valigie; il viaggio con le sue amiche era stato rimandato. Canticchiava, mia moglie. Le bastava quella casa, per sentirsi ispirata. D'altronde, qui lei ci era cresciuta; una casa un po’ troppo scura forse, visto che già dopo pranzo si rendeva necessario affidarsi alla luce artificiale; ma la sentiva sua, come un ponte immaginario che la trasportava ogni volta al presente, senza mai tagliare il cordolo che la riportava all’infanzia.
E le bastavo io, l’uomo, il compagno, il bersaglio di un sentimento tramandato, più che provato, per via imprinting, di generazione in generazione.
Non sfiorai nemmeno la maniglia. Dovevo uscire. Una volta fuori di casa, regalai un fugace sorriso al cane della vicina, e capii che il mio matrimonio era finito.
pubblicato nel numero 113 della Rivista de La Masnada
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