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Dell'inverno in Boemia

Aggiornamento: 14 mag 2021

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Il fresco che raggiunge Horní Planá durante i primi giorni di agosto sa di giustizia: un atto purificatorio che decapita le pulsioni sessuali, riportando la temperatura d’un uomo a un valore più socialmente accettabile. Slávek dalla barba a punta… e la tua bettola con quel suo bancone gelido: è lì che, quasi ogni sera, deposito la mia carcassa, come fosse l’ultima frontiera tra il me del qui e ora e del colui che mai sarà. Svernare in un anfratto dimenticato della Boemia, chi l’avrebbe detto... io che avevo progetti arditi, persino per uomini migliori di me; ora invece ecco spegnermi in un tiepido sorriso dinanzi alla cortesia di Petr, che agghinda la mia mano, ogniqualvolta ne rimane orfana, di un nuovo bicchiere di Becherovka. Scappato da Praga, allontanato a tempo indeterminato dal partito; troppo incline al confronto e all’apertura verso il diverso, connotato dell’imperfetto comunista…

Petr, il canuto amico della mia senilità: conosce il silenzio dei miei occhi, percepisce quando proietto davanti a me i ricordi della capitale, delle lotte, della mia vita precedente (un racconto a lui sconosciuto, come legna arsa su focolari intorno a cui si tramandano fiabe di antichi eroi) e con grazia sorprendente, per un uomo d’una tanto misera estrazione culturale, sfuma lontano: mi ama con rispetto.

Nel nulla che anticipa la fine del mondo, in una desolazione divenuta introspettiva che apre lunghi squarci nell’ego e insanabili ferite sull’avvenire, ecco che Ti materializzi…

«Non starai bevendo troppo?» ed è calda la tua mano mentre il rosso intinto di sangue rappreso che delimita le tue labbra mi reclama, mi tiene ancorato ad una diversa sobrietà. Sei piena, Nelinka, in te vive quest’isolata campagna, ne racchiudi le asperità e le contraddizioni. Mi squadri come se cercassi su di me segni di una nuova vecchiaia: un filo bianco di più o una ruga sfuggita ai raggi di quel camino dove, da quando mi hai accolto in casa tua, ti offri a me senza remore, dapprima per una tua congenita disposizione alla sottomissione e, soltanto in seguito, accogliendo la nascita d’un sentimento non più coercitivo. Lasciavi che il mio seme ti morisse dentro, visto che le tue ovaie erano rimaste mute a causa d’una malattia contratta quand’eri piccola… e piccola tornavi dopo aver finito, chiedendomi di raccontarti di Praga, e della Moldava che carezza il ventre del Ponte Carlo nelle sere d’autunno.

«Nelinka, mi sei cara oltremisura...» e provo a sfiorarti la guancia. Eviti la carezza, la pudicizia è l’ultimo segnale di una fanciullezza mal vissuta, e mi dedichi un ultimo sguardo, pieno di affetto. Tu cerchi in me, persino in questo momento, una guida, un esempio; hai bisogno di credere in qualcosa di più grande, di più totale: l’amore per un singolo uomo, per quanto valido possa apparirti, non può reggere il confronto, svanirebbe (come le sagome delle navi quando abbandonano Vladivostok… ah, l’avessi vista insieme a me, la grande madre Russia!) dinanzi alla grande bandiera, sotto la quale mille anime hanno una voce sola!

Scuotesti il capo, abbassasti la guardia. E Petr fu lesto a passarmene un altro. Tu guardavi colui che un tempo aveva comandato e deciso, ridotto adesso, in un presente che non lascia spazio ai sogni, ad anonima unità, scissa dal fine ultimo. Non essere triste, dolce anima! ora sono pronto, possiamo tornare a casa… Gli occhi dei presenti mangiarono, avidi, le tue forme generose, quelle tue cosce salde e bianche come il marmo delle statue. Non ebbi il coraggio di affrontarli, recitai semplicemente la parte dell’ubriaco e mi lasciai traghettare via da te e da Petr, delegando ai vostri cuori, più gonfi del mio, ogni sorta di responsabilit«Dormi adesso» e mi lasciasti, in nome della promessa d’un ritorno, la forma delle tue labbra sulla mia fronte. Lenzuola bianche a perdita d’occhio, le proporzioni alterate dal liquore: in linea retta, immaginando di unire il capezzale alla finestra che dava sul fiume, mi lasciai, seppur in modo fugace e timoroso, trasportare dal silenzio della campagna, dalle distese che a sud portano fino alla fattoria di Boleslav (nemico della Rivoluzione, preferiva parlare ai maiali, che a differenza degli uomini non han colpe). I tuoi seni, Nelinka, non chiedo altro! ma non sono ancora perduto del tutto nel sonno, avverto chiari i bisbigli che provengono dall’anticamera e inizio a toccarmi. Ho sempre saputo, Nelinka… il tuo petto ora colma le mani di Petr, la tua lingua esplora la bocca del contadino con una voracità a me sempre negata. Un tonfo, qualcosa è caduto: Petr ti sbatte contro il muro mentre tenti, goffa, di gemere sottovoce. Non vi odio, amici miei: siete ciò che di più genuino mi sia rimasto ormai… i russi domani ci invaderanno, è inevitabile, in nome d’uno status quo che non ammette variazioni sul tema. Potrei partire stanotte, raggiungere Havel, Igor e gli altri compagni che sarebbero felici di riabbracciarmi; potrei morire accanto a loro, e avrei il mio nome, per sempre, fra i martiri della Primavera… ma non sono Dubček, e mai lo sarò; la differenza di potenziale tra ciò in cui credo e ciò verso cui oso: questa è la mia colpa più grande… perciò adesso, dolce Nelinka, sbrigati a farlo venire, ché io ho già finito: le lenzuola, tra macchie di cellule sterili e voluttà d’animale, devono essere lavate; un sole estivo, noncurante del sangue che giungerà da nord, domani le asciugherà.


fotografia di @robirosca

























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