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  • Giorgio Manganelli -Dall'Inferno

    un poco taccio poi a me ripeto ma insomma sono io morto e se sì giacché altrimenti non posso spiegare il mutamento del luogo che significa topograficamente esser morto mi rammento di antiche dottrine e di voci pazienti che mi diseducavano dall'amor di me stesso gusto un frettoloso l'odio di me stesso e infine mi dico certamente questo è l'inferno mentre la voce distratta si trascina io chiudo gli occhi ho di nuovo di fronte il me stesso di paglia mi guarda i suoi occhi non esprimono tristezza né supplica non è più solo gli è accanto la figura stranamente benevola vestita alla maniera dei vecchi medici nella destra tiene una sorta di forbice dalle lame lunghe e affilate sorride e mi fa un inchino e avanza un poco con la mano sinistra e la sinistra stringe e cautamente una bambola nuda è una bambola piccola e non della di stoffa ne pare ma dura capisco e compatta è una femmina e sebbene stia immobile indovino che questa bambola una sua capacità di muoversi forse grazie a interiori meccanismi molle e ingranaggi l'ha scruto nel volto un volto più cauto che anonimo le labbra appena scostate mi propongono un seghettato sorriso di minutissimi denti un orrore profondo mi sconvolge vedo chiaramente che il me stesso di paglia l'uomo in guisa di medico le forbici e la bambola alludono a qualche gesto in cui l'orrore si mescolerà irreparabilmente alla dolcezza cerco di capire se il centro dell'orrore sia la bambola il medico il me stesso urlo apro gli occhi hai visto la bambola - dice la terza voce - è un sogno giusto è orribile appunto questo sogno è un messaggio dei demoni cui non ci sono sogni quanto a demoni, chiunque può esserlo anche tu taccio non è in effetti impossibile che io sia ora demone che il mio travestimento umano si sia diradato quanto basta per lasciar trasparire la mia qualità demoniaca forse è vero che sono morto certo se mi penso come demone capisco o credo di capire la ferocia della mia condizione di vivo quella che ho chiamato mi pare la strettura del corpo quell'essere troppo minuto per l'anima seviziante che voleva essere partorita ma allora che è mai quel cerretano da burla e strazio e perché mi sono duplicato in un me stesso di paglia e tuttavia senziente e che cosa è la bambola per adesso è una bambola - riprende la voce monotona e sorda - poi la si conosce meglio o peggio non sono stupito dalla lettura del mio pensiero ma urtato come da una indelicatezza confesso che non riesco più a capire esattamente quali siano i miei limiti può essere che quella voce o voci che mi rispondono altro non siano che luoghi del me stesso così come un tempo avvertivo il mormorio delle orecchie o l'urlo del diaframma terrorizzato dunque non è impossibile che io legga il mio pensiero ed io mi risponda e se io posso essermi demone forse posso essere inferno se io sono l'inferno tutti un giorno o una notte passeranno dentro di me tutto ciò non ha senso o piuttosto ha il senso del non senso ma ora devo decidere se continuare o meno ciò che chiamo il sogno se non consento ai gesti del cerretano tutto si fermerà e sia questo o meno l'inferno non accadrà più nulla rifiutandomi al me stesso sotto forma di sogno io sarò di impedimento al decorso di questo luogo non già al suo procedere temporale che sospetto ormai essere impossibile ma al suo svolgersi in forma di itinerario ora le trattative sono con la stanchezza del labirinto o con il labirinto come itinerario se voglio sperimentare il labirinto devo subire accogliere dare il benvenuto al sogno quale si sia la sofferenza che il cerretano infliggerà al fantoccio in cui mi riconosco ma quel che soprattutto interessa e conoscere la bambola per ripartire debbo retrocedere giacché non c'è dubbio che il cerretano è in qualche modo oltre lungo il percorso del labirinto dunque chiuderò gli occhi il cerretano mi fa un cenno del capo stava dunque aspettando che gli consentissi di riprendere la sua opera sorride è benevolo si volge verso il fantoccio e non senza grazia con le forbici gli apre il petto vedo che il fantoccio non è colmo di paglia ma di una materia untuosa grassa e cedevole il cerretano la scosta con le mani sottili e introduce la bambola poi la ricopre di quella materia infine riaccosta la pelle e salda con una sorta di resina non vedo dove tragga codesta resina forse la secerne dalle dita guardo in volto il fantoccio non rivela dolore ma un orrore afono so che l'operazione non è conclusa il cerretano prende per un braccio il fantoccio e lo dirige verso di me vedo che quella strana macchina cammina mi arriva di fronte e non si arresta e io ed io siamo una cosa sola avverrto nel mio addome la bambola che si accomoda un luogo ove starsi apro gli occhi la bambola è sempre nel mio corpo ridendo mi sussurro sono gravido qualcosa mi dice che talune gravidanze possono essere eterne anche se finiscono la gravidanza è un segno indelebile mi chiedo se oltre che essere demone a me stesso io abbia accolto la presenza di un ulteriore demone ora siamo il rudimento di una famiglia non desidero essere partorita - dice una voce che riconosco sebbene non l'abbia mai sentita per la voce della bambola - desidero restarti in corpo a lungo sei caldo la bambola si muove sento che una sua minuscola mano cattura un frammento di carne e lo strappa e se ne nutre in quel punto del mio corpo scaturisce un dolore atroce quanto effimero poi la bambola orina dentro di me sento che ciangotta tra se e se poi dilata le gambe rigide ora defeca cibo e latrina della mia bambola trovo una sorta di pace in questa funzione che sospetto fatale ora sono certo che solo all'inferno possono accadere così fatti eventi ma questo sposta il problema non altro giacché non riesco a sapere se io stesso non sia né inferno e dunque inferno siano i miei accadimenti più tardi parlerò alla bambola

  • LESSNESS legge NKK - 04 - Finché morte non vi spari (Pietropaolo Morrone)

    Stamattina al parco, mentre ero seduto e la facevo dietro a un cedro, c’era un cane che si è avvicinato, pelo lungo, ciuffi appiccicaticci, un paio di giri e l’ha fatta pure lui, era bianco ma il bianco lo vedevi solo se ti concentravi e gli toglievi tutto lo sporco con la mente, lui mi guardava e io lo guardavo, non pensavo a niente né dicevo niente ché tra di loro si guardano così, senza parole, ho finito prima io, lui mi ha aspettato, mi guardava e ogni tanto sbadigliava, se n’è andato quando ha capito che non avevo niente da dargli, mica è come il giudice e mia moglie che non ci arrivano, anzi avevo ancora meno perché mi ero appena liberato. Il problema quando vivi in macchina non è che stai scomodo e ti rompi la schiena quando dormi, non sono il mangiare e il bere ché ti arrangi saltando il pasto un giorno sì e uno no, non è il freddo ché ti copri o accendi il motore se c’è benzina, né il caldo ché ti metti al fresco, non è urinare né andare solido ché trovi sempre posto, ma è lavarti il culo, quella è un’altra storia, e c’è uno zampillo nel parco al di là dei cedri, posso bere e togliermi il maglione scigato e sciacquarmi ché se passa qualcuno al massimo mi guarda stranito ma poi tira dritto ché mica può pensare a uno che vive in macchina, a parte il fatto che il culo non ci arriva allo zampillo ma anche se ci arrivasse chiamerebbero i vigili, è tutta questione di esperienza, ho trovato che il modo migliore è usare l’erba, il guaio è quando non c’è o prendi quella sbagliata ma dopo un po’ arrivi a distinguere l’erba buona per il culo. Mentre la facevo non pensavo a niente ma guardavo a terra ché l’ho imparato a fare da quando sono in strada, e cioè dal divorzio, quasi tre anni giusti, guardo sempre a terra anche quando non la faccio, e se ci pensi ci sono tre tipi di persone, quelli che guardano il cielo, quelli che guardano dritto e gli altri che strisciano gli occhi a terra come me, e non puoi capire quante sigarette mezze fumate si trovano a terra e nei parchi e lungo i marciapiedi, qualche volta ne trovi una mezza intera nella fezza delle cicche e così la prendi, la raddrizzi tra pollice e indice, la schiacci un po’ qua e un po’ là per farla assomigliare a una sigaretta bella fresca e liscia, poi stacchi il filtro e te la fumi, come quella che ho trovato stamattina, sono andato verso l’auto ché avevo lasciato l’accendino e me la potevo pigliare comoda ché per andare al magazzino dove lavoro c’erano ancora due ore, me la sono goduta a occhi chiusi ché il trucco è tenere il fumo il più possibile e poi sfiatarlo un poco alla volta e mentre la macchina si riempiva di nebbia pensavo a mio padre che si sparava Nazionali senza filtro, non fumare papà, gli dicevo, e lui mi guardava e aspirava a lungo chiudendo gli occhi, tengo sempre gli sportelli chiusi per bene così mi posso aspirare lo stesso fumo tante volte, sempre fumo è. L’altro giorno sono passato davanti al mio portone che poi non è mica più mio, cioè non proprio davanti ché non sia mai che mi vedano se no l’avvocato di mia moglie va a nozze, stavo dall’altra parte della strada appoggiato a un palo della luce col cappello sulla faccia e a un certo punto arriva lui, lo pseudo-hippie-rugoso-capellone, io almeno me le trovavo lisce le donne, si avvicina al portone, ondeggia la zazzera brizzo, poi tira fuori la chiave dalla tasca, anzi un mazzo intero e ci mette pure un po’ a trovare quella del mio portone, hai capito il giovanotto infeltrito, mica scemo! certe volte penso che strano essere divorziati e sentirsi cornuti, il giudice ipse dixit ha detto che deve mantenere lo stesso tenore di vita mia moglie ma io a volte non glieli dò tutti gli alimenti, e pensare che si spara un pacchetto di sigarette al giorno, ne fumasse di meno avrebbe bisogno di meno alimenti, mi dice ogni volta che mi querela ma le querele non mi arrivano mai ché il servizio postale non funziona per chi vive in macchina, poi che ho fatto? ho acceso un’altra mezza cicca che tenevo in tasca ma finisce subito ché non riesco sempre a fare boccate lunghe, passa un’altra mezz’ora e il capelluto brizzo esce fresco fresco e se ne va allegro con una tracolla, qui è stato il momento che ho deciso di ammazzarla, però non è andata liscia come l’altra volta, il guaio è che non faccio mai una cosa uguale due volte di fila, finisce sempre che cambio qualche cosa, un particolare o l’ordine delle cose e così non imparo mai e riesco una volta sì e una no, quando va bene, è un guaio perché se una cosa la fai sempre nello stesso modo diventi esperto e finisci col farla alla perfezione, come la natura che fa cadere le cose sempre allo stesso modo, ché mica dal tavolo ti fa cadere la tartina in un secondo oggi e in due domani, sono miliardi di anni che la natura si esercita e per questo non sbaglia un colpo, io invece che faccio le cose ogni volta diversamente, è come farle sempre per la prima volta e poi non ho né tavolo né tartine per provare. Ho pensato al veleno, un modo di ammazzare che le donne conoscono bene e se ci prova un uomo poi finisce che non ci riesce e deve farlo in un altro modo, come è successo a me, a Natale di quattro anni fa ci hanno regalato un rametto di vischio, quella pianta che non è una pianta ma internet dice che è una specie di parassita che cresce sui rami e mangia a sbafo sulle piante che lo ospitano, tanto sa che i rami mica lo cacciano perché non si muovono altrimenti lo prenderebbero a calci in culo o l’ammazzerebbero come ho fatto con mia moglie, poi ho letto su internet, ormai tutto si legge lì altrimenti come fai a sapere che il cesso si stura meglio con la Coca Cola che col Cif Ammoniacal? e non lo posso sapere di sicuro ché il cesso non ce l’ho e neppure il Cif, allora ho letto che le bacche di vischio sono velenose e così le ho schiacciate e ci ho fatto una poltiglietta e l’ho messa in una boccetta di plastica, la cosa difficile è stata convincere mia moglie a invitarmi a pranzo ché mica la potevo invitare in macchina, meno male che è a nome mio la macchina, e cazzo se ascoltavo lei quando eravamo al concessionario e prendevamo una Mini, anzi prendevo, ché poi l’ho pagata io, a quest’ora sarei in ortopedia per costipamento osseo, però avrei vitto e alloggio, lei vuole i soldi, Ipse dixit l’ha stabilito con gli avvocati, ho trovato un altro lavoro e ti aumento l’assegno e già che ci sono ti do pure gli arretrati, è bastato dirlo che ha accettato d’invitarmi, pasta e tonno, sempre pasta e tonno mi fa, ma che dico, mi faceva, poi è andata un attimo in bagno e io ho corretto la pasta e tonno colle bacche di vischio, sento un odore strano, ha detto, le donne hanno il naso fino, si sa, sarà il tonno di merda che compri sempre al 50% di sconto al banco della roba in scadenza, ho pensato ma non l’ho detto, però l’ha mangiato, poi mi sono fatto offrire da bere e non me ne andavo mai ché volevo vederla stramazzare col vischio in gola ma niente, beveva e parlava, poi mi sono ricordato che internet dice che il vischio non è sempre sempre mortale ma può fare venire anche solo una cacarella a motore, dipende anche dalle quantità, forse avevo avuto troppa fretta, ho detto che volevo prendere un po’ d’aria, mi ha seguito sul balcone e l’ho buttata giù dal quinto piano, occhio e croce era schiattata, mi sono acceso una bella sigaretta e me ne stavo appoggiato sul parapetto a guardarla, bella morta, e c’erano persone disotto che hanno circondato il corpo, uno ha puntato il dito verso di me e io gli ho fatto un saluto con la mano, ciao amico come ti vanno gli affari? ieri invece l’ho ammazzata diversamente, eravamo sposati da un annetto e un giorno che non c’era nessuno l’ho stesa su un tavolo con la scusa di usare la lingua come piaceva a lei, ha chiuso gli occhi ma invece della lingua ho preso una bella accetta nuova appena comprata e l’ho decapitata, era bella grossa, ne ho girati di Brico per trovarne una in sconto e pure buona per il suo collo grasso, ogni tanto fanno le promozioni per mariti senza soldi, la cosa seccante è stata la pulizia del sangue nero, pure il sangue nero ha che invece tutti ce l’hanno rosso, ma la cosa che più mi fa incazzare è quel prete che ci ha sposati, finché morte non vi separi, è strano, certe frasi te le scordi e poi ti ritornano in testa dopo anni e anni e questo è diventato il mio passatempo, sono già trecento e quarantaquattro volte che l’accoppo, una per ogni santo, l’ho sparata una quarantina di volte, ma la prossima (domani) sarà con la schioppetta dei briganti, anzi di quelle brigantesse che stanno sui libri, scure come la notte, più cazzute dei maschi, con quegli occhi di pece che ti guardano di taglio, dopodomani invece m’intrufolo in casa e li affogo a tutti e due col cuscino di lattice che ho pagato io così almeno lo uso, lei e lo pseudo-hippie, e li metto in qualche posizione artistica, faccio un po’ di foto e le carico su internet e poi finisce che divento famoso e mi invitano nei talk-show, magari scrivo pure un libro e divento un signore, ma il gran finale è per il mio compleanno, c’è un metodo speciale che sto pensando da mesi, una bella supposta esplosiva, la ricetta è semplice, cinquanta parti di burro cacao, dieci di glicerina e quaranta di plastico, conosco un po’ di gente che va e viene dalla galera e me lo procuro, mica sono un coglione, con le mani faccio un bell’impasto, per bene, preparo quei mini-siluri con cura e poi trovo la maniera di sostituirli alle supposte che prende sempre per le emorroidi, e poi che meraviglia mi siedo sulla panchina davanti a casa mia dove se ne sta spaparanzata con l’hippie brizzo e aspetto la botta, fuochi d’artificio per il mio compleanno, che vuoi di più? ho le palpitazioni a pensarci, ora però è meglio andare ché se no mi viene un infarto per l’emozione e non la posso accoppare più e poi le cicche le ho finite, devo andare a cercarle, ho bisogno d’aria. LA VERSIONE UFFICIALE DI QUESTO RACCONTO LA POTETE TROVARE SULLA PAGINA UFFICIALE DELLA RIVISTA FUORIASSE CLICCANDO QUI

  • Progetto Proust - 05 - Le fanciulle in Fiore (trascrizione)

    Quel giorno, come i precedenti, Saint-Loup si era dovuto recare a Doncières dove, in attesa che rientrassi in modo definitivo, avrebbero ora avuto sempre bisogno di lui sino alla fine del pomeriggio. Rimpiangevo che non fosse più a Balbec. Avevo visto scendere di carrozza ed entrare le une nella sala da ballo del casinò, le altre dal gelataio, delle giovani donne che di lontano mi erano parse deliziose. Ero in uno di quei periodi della giovinezza sprovvisti di un amore particolare, Vacanti, in cui, come un innamorato la donna che gli ama, si desidera, si cerca, si vede dappertutto la Bellezza. Basta che un tratto reale, il poco che si scorge di una donna vista da lontano o di schiena, ci permetta di proiettare davanti a noi la Bellezza. E subito ci immaginiamo di averla riconosciuta. Il cuore ci batte affrettiamo il passo e resteremo sempre a metà Persuasi che era lei, Purché la donna sia scomparsa: soltanto se riusciamo a raggiungerla, Comprendiamo il nostro errore. D'altronde sempre più cagionevole di salute, ero indotto a sopravvalutare i piaceri più semplici per la difficoltà stessa di conseguirli. Donne eleganti, credevo di vederne dappertutto perché ero troppo stanco sulla spiaggia o troppo timido al casinò o in una pasticceria per accostarle. Tuttavia, se dovevo morire presto, mi sarebbe piaciuto sapere com'erano fatte da vicino. In realtà le più belle fanciulle che offrisse la vita quando pur fosse un'altro o anche nessuno A godere di quell'offerta. Non mi rendevo conto, infatti, che all'origine della mia curiosità c'era un desiderio di possesso. Avrei osato entrare nella sala da ballo se Saint-Loup fosse stato con me. Solo io restavo semplicemente davanti al Grand Hotel, aspettando il momento di andare incontro alla nonna. Quando quasi ancora all'altro capo del molo dove esse facevan muovere una macchia bizzarra, vidi avanzarsi cinque o sei ragazzine così diverse per l'aspetto e i modi da tutte le persone che si era soliti vedere a Balbec, come sarebbe potuto esserlo. Sbarcato non si sa di dove. Uno stormo di gabbiani che eseguisca a passi contati sulla spiaggia, mentre i ritardatari raggiungono gli altri con piccoli voli. Una passeggiata il cui fine appaia tanto oscuro ai bagnanti che essi non sembran vedere quanto chiaramente determinato per il loro spirito di uccelli. Una di quelle sconosciute spingeva davanti a sé con la mano la sua bicicletta. Altre due tenevano in mano mazze da golf e il loro abbigliamento contrastava con quello delle altre fanciulle di Balbec. Tra le quali è vero, alcune si davano agli sport, ma senza usare per questo una tenuta speciale. Fra tutta quella gente di cui alcuni seguivano un pensiero, ma le rivelavano, allora la mobilità con gesti meccanici e sguardi svagati, altrettanto poco armoniosi della circospetta titubanza dei vicini Le ragazzine che avevo scorto con quella destrezza dei gesti che nasce da una perfetta scioltezza del corpo e da un disprezzo sincero per il resto dell'umanità, Procedevano leste senza esitazioni né rigidezza, compiendo esattamente i movimenti voluti in una piena indipendenza reciproca di tutte le membra, mentre la maggior parte del corpo conservava quell'immobilità così notevole nelle buone ballerine di valzer. Esse non erano più lontane da me. Benché ognuna fosse un tipo assolutamente diverso dalle altre, tutte avevano una certa bellezza. Ma a dire il vero le vedevo da così pochi minuti e senza osare guardarle fissamente che non ne avevo ancora individuata nessuna. Tranne una il cui naso, diritto e la carnagione bruna faceva spiccare in mezzo alle altre, come in certi quadri del Rinascimento, un re mago di tipo arabo. Esse non mi erano note che una per un paio di occhi duri, ostinati e ridenti. Un'altra per le guance in cui il rosa aveva quella sfumatura di rame che rievoca il Geranio. E anche di questi tratti non ne avevo ancora legato indissolubilmente nessuno ad una fanciulla piuttosto che a un'altra. E quando, secondo l'ordine in cui si svolgeva quel piccolo corteo meraviglioso, perché vi erano accostati gli aspetti più diversi, tutte le gamme di colore vi comparivano una accanto all'altra, ma che era confuso come una musica in cui non avessi potuto isolare, riconoscere al passaggio le frasi distinte, ma dimenticate subito dopo vedevo emergere un ovale bianco, degli occhi neri, degli occhi verdi. Non sapevo se fossero gli stessi che mi avevano già deliziato un momento prima. Non potevo metterli in rapporto con una data fanciulla che io avessi separata dalle altre e riconosciuta. E questa assenza nella mia visione del distacco, che avrei presto stabilito fra loro, propagava attraverso il gruppo un ondeggiamento armonioso. La traslazione continua di una bellezza fluida, collettiva e mobile. La moglie di un vecchio banchiere, dopo aver esitato tra varie posizioni per il marito, lo aveva collocato su una sedia a sdraio di fronte alla diga riparato dal vento e dal sole, dal chiosco della musica. Visto l'ho ben assestato, lo aveva lasciato per andare a comprargli un giornale e gli avrebbe letto per distrarlo. Piccole assenze durante le quali lo lasciava solo e che non prolungava mai oltre cinque minuti, Assenze che a lui sembravano assai lunghe ma che lei rinnovava abbastanza di frequente perché il vecchio sposo, cui prodigava e insieme dissimulava le sue cure, avesse l'impressione di essere ancora in condizione di vivere come tutti gli altri e di non avere nessun bisogno di protezione. La pedana dell'orchestra formava sopra di lui un trampolino naturale e tentatore su cui, senza nessuna esitazione, prese a correre la più anziana della piccola brigata e saltò sopra il vecchio spaventato, il cui berretto fu sfiorato dai piedi agili, con grande spasso delle altre fanciulle, soprattutto di due occhi verdi, in un viso paffuto che espressero per quell'atto un'ammirazione e un'allegria in cui credetti di discernere un po' di timidezza, una timidezza vergognosa e fanfarona che non esisteva nelle altre. Fecero ancora qualche passo, poi si fermarono un attimo in mezzo alla strada senza preoccuparsi di interrompere il movimento dei passanti in un aggregato di forma irregolare, compatto, insolito e strillante come un conciliabolo di uccelli che si radunino al momento di prendere il volo. Poi ripresero la loro lenta passeggiata lungo il molo sopra il mare. Ormai individuate, il modo però in cui si rispondevano i loro sguardi animati di presunzione di spirito cameratesco e in cui si accendeva, attratti ora l'interesse, Ora l'insolente indifferenza, di cui ognuna si distingueva a seconda che si trattasse di un'amica o dei passanti, E anche quella consapevolezza di conoscersi fra loro abbastanza intimamente da passeggiare sempre insieme, facendo brigata a parte, mettevano tra i loro corpi indipendenti e separati mentre avanzavano lentamente un legame invisibile ma armonioso, come una stessa ombra calda, una stessa atmosfera. Facendo di loro un tutto tanto omogeneo nelle sue parti quanto diverso dalla folla in mezzo a cui si svolgeva lentamente il loro corteo. Un istante mentre passavo accanto alla bruna dalle gote paffute che spingeva una bicicletta, incrociai i suoi sguardi obliqui e ridenti, Vibrati dal Fondo di quel mondo inumano che racchiudeva la vita di quella piccola tribù, Inaccessibile ignoto, in cui l'idea di quello che io ero non poteva certo né giungere, Né trovar il posto. Tutta attenta a quel che diceva alle compagne, la fanciulla dal polo che le scendeva molto basso sulla fronte, mi aveva visto nel momento in cui il raggio nero emanato dai suoi occhi mi aveva incontrato? Se mi aveva visto, Che mai avevo rappresentato per lei? Dal grembo di quale universo mi distingueva? Mi sarebbe stato così difficile dirlo, come quando certe particolarità ci appaiono grazie al telescopio in un astro vicino, È difficile concluderne che vi abitino esseri umani. Che essi ci vedano e quali idee questa vista abbia potuto risvegliare in loro. Se pensassimo che gli occhi di una ragazza come quella non sono che una brillante rotella di mica, Non saremmo così avidi di conoscere e di unire a noi la sua vita. Ma sentiamo che quel che riluce in quel disco pieno di riflessi non è dovuto unicamente alla sua composizione materiale, Che sono ignote a noi, le nere ombre delle idee che quell'essere si fa a proposito delle persone, dei luoghi che conosce, le ombre anche della casa in cui rientrerà, I progetti che essa fa o altri han fatti per lei, e soprattutto che è lei, con i suoi desideri, le sue simpatie, le sue repulsioni, la sua oscura e incessante volontà. Sapevo che non avrei posseduto quella giovane ciclista, Se non fossi riuscito a possedere anche quello che c'era nei suoi occhi. E di conseguenza. Tutta la sua vita mi ispirava desiderio. Desiderio doloroso. Perché lo sentivo inattuabile ma inebriante, perché quella che era stata fino allora la mia vita, avendo bruscamente cessato di essere la mia vita totale, non essendo più che una piccola parte dello spazio disteso davanti a me, che io ardevo di percorrere e che era fatto della vita di quelle fanciulle, mi offriva questo prolungamento, questa possibile moltiplicazione di noi stessi, che è la felicità. E senza dubbio il fatto che non ci fosse tra di noi nessuna abitudine, come nessuna idea in comune doveva rendermi più difficile legarmi con loro e piacere. Ma forse anche grazie a tali differenze, alla coscienza che nella composizione dell'indole e delle azioni di quelle fanciulle non entrava un solo elemento che io conoscessi o possedessi, in me era subentrata alla sazietà, la sete. Simile a quella di cui arde una terra arida di una vita, che la mia anima per non averne mai fino allora ricevuto una goccia, Assorbirebbe, tanto più avidamente a lunghi sorsi, in un imbibizione più perfetta. La felicità di conoscere quelle fanciulle Era dunque inattuabile? Certo, non sarebbe stata la prima del genere a cui avessi rinunciato. Non avevo che da ricordare tante sconosciute che anche a Balbec la carrozza che si allontanava a gran velocità, mi aveva fatte abbandonare per sempre. E perfino il piacere che mi dava la piccola brigata, Nobile come se fosse stata composta di vergini elleniche, proveniva dal fatto che aveva qualcosa della fuga delle passanti sulla strada. Questa fugacità degli esseri che non si sono conosciuti, che ci costringono a disancorarci dalla vita abituale in cui le donne che frequentiamo finiscono con lo svelare le loro imperfezioni, ci mette in quello stato di inseguimento in cui nulla ferma più l'immaginazione. Ora spogliare di essa i nostri piaceri è ridurli a loro stessi, A nulla. Offerte da una di quelle mezzane che del resto si è visto che non disprezzavo tolte dall'elemento che dava loro tante sfumature e un che di indefinito, Quelle fanciulle mi avrebbero incantato meno. Bisogna che l'immaginazione risvegliata dall'incertezza di poter raggiungere il proprio oggetto, Crei uno scopo che ci nasconda l'altro e sostituendo al piacere sensuale l'idea di penetrare in una vita. Ci impedisca di riconoscere quel piacere, di sentirne il vero sapore di limitarlo alla sua portata. A quelle fanciulle giovava anche quel mutamento delle proporzioni sociali che è tipico della vita balneare. Tutti i privilegi che nel nostro ambiente abituale ci prolungano, ci ingrandiscono, divengono là invisibili, sono di fatto oppressi. In cambio gli esseri cui si attribuiscono indebitamente privilegi simili vengono avanti solo ampliati da un'estensione fittizia. Essa rendeva più facile che certe sconosciute, E quel giorno quelle fanciulle, Prendessero ai miei occhi un'importanza enorme e impossibile far loro conoscere Quella che io potevo avere.

  • Iosif Brodskij - Fondamenta degli incurabili (trascrizione)

    ho sempre aderito all'idea che Dio sia tempo o almeno che lo sia il suo spirito magari era un'idea mia, di mia fabbricazione ma adesso non ricordo in ogni caso ho sempre pensato che se lo spirito di Dio aleggiava sopra la faccia dell'acqua l'acqua non poteva non rifletterlo da qui il mio debole per l'acqua e le sue pieghe rughe increspature e poiché sono un nordico per il suo grigiore penso molto semplicemente che l'acqua sia l'immagine del tempo e la notte di capodanno con il gusto un po' pagano cerco sempre di trovarmi vicino all'acqua possibilmente davanti a un mare o a un oceano per assistere all'affiorare di una nuova porzione di un'altra tazza di tempo non cerco una sirenetta nuda a cavallo di una conchiglia voglio vedere una nuvola o la cresta di un'onda che lambisce la riva a mezzanotte questo per me è tempo che esce dall'acqua quando fisso il lungo pizzo che depone sulla spiaggia non lo guardo con la curiosità di una zingara sapiente ma con tenerezza e gratitudine così ho messo gli occhi su questa città questo è il come e nel mio caso il perché non c'è nulla di freudiano in questa fantasia o nulla che si ricolleghi specificatamente ai cordati anche se non c'è dubbio si potrebbe scoprire qualche nesso evoluzionistico se non proprio ancestrale o autobiografico tra il disegno che un'onda lascia sulla sabbia e lo sguardo con cui lo osserva un discendente dell'ittiosauro un altro mostro anche lui il pizzo verticale delle facciate veneziane è il più bel disegno che il tempo alias acqua abbia lasciato sulla terraferma in qualsiasi parte del globo in più esiste indubbiamente una corrispondenza se non un nesso esplicito tra la natura rettangolare delle forme di quel pizzo ossia degli edifici veneziani e l'anarchia dell'acqua che disdegna la nozione di forma è come se lo spazio consapevole qui più che in qualsiasi altro luogo della propria inferiorità rispetto al tempo gli rispondesse con l'unica proprietà che il tempo non possiede con la bellezza ed ecco perché l'acqua prende questa risposta la torce la ritorce la percuote la sbriciola ma alla fine la porta pressoché intatta verso il largo nell'adriatico

  • è stato bello stasera

    Invidio i buoi, perché ignorano la mannaia. Tu non capivi, non avevo bisogno di girarmi verso di te per riflettermi nelle tue pupille smarrite. Tra noi due, dove le avevi posate prima del mio arrivo, le carte su cui il tuo avvocato pretendeva ci fosse la firma di entrambi; con la coda dell’occhio scorsi che era rimasto dello spazio soltanto sotto il mio nome. Mi avevi lasciato persino la penna, affinché non perdessi troppo tempo a cercarne una per casa. Il legno e la mano sul tavolo della cucina, al servizio della signorile arte del fingersi già morti: anticipare il Tempo, batterlo dove lui pare invincibile. Il dovuto, l’inevitabile, le conseguenze pomeridiane di una tazza di caffè, dipingono, meglio di qualsiasi altra cosa, un suicidio che, di colpo, riporterebbe ogni cosa al proprio posto. Mia madre era una donna portentosa; una sagoma che si stagliava fra me e la mano di Bea, la figlia dei vicini. Bea: riccioli castani e macchie di pomodoro sul grembiule; la bimba non capiva, io la assaggiavo fra le cosce: sapeva ancora di piscio e tessuto, sul divano, nel salotto, nella casa in cui i miei primi cinque anni di vita divennero, col senno di poi, il ricordo più felice. E ora tu, qui, a cercare di immaginarti bovina con me a fianco, a dare un senso a quest’uguale che ha smarrito la sua equazione. Siamo ridicoli, io e te, divisi dal cesto che ci ha regalato tua sorella per lo scorso Natale. Rimango in silenzio a guardare le molliche dell’arredamento, i brandelli a rate che suonano la succosa melodia del metallo che tritura la santità. Non sono ormai che un uomo fatto e finito, che perdura in quei pochi silenzi che ha ancora la forza di riconoscere. Fosse perlomeno sopravvissuta la televisione! Il suo personale arbitrio, la strafottenza del catodico che impartisce, educa; ora tu Loredana, come milioni e milioni di tuoi simili, ti credi capace di discernere, di saper valutare, senza nemmeno sapere il nome del fiore che hai calpestato. Tra i gerani e le stampe rinascimentali, in una sottile linea in cui il tramonto si spegne, scorgo ancora quel colore che sa di borghese benevolenza, di placida ospitale accettazione del dolore narrato, ma mai provato, ché qui, in questa famiglia buona, non v’è vera autentica rassegnazione: la forchetta che non tocca mai il pavimento, la sconfitta della polvere che perdura, invisibile, senza mai posarsi sulle cose. Blateri, sono vent’anni che blateri; la filiale verginità dei tuoi istinti, quand’eri ancora abbastanza giovane per riconoscere le tue stesse paure: ogni aspetto di te che credevo eloquente, la sinuosità delle tue mancate parole, mentre le ciglia trasmettevano quel desiderio tipico di chi non può bastarsi, giacciono, chissà, in quella valigia rossa che trascinavi a fatica, il giorno in cui partimmo per Dublino. Cosa ci è successo, tu mi chiedi. Anni fa, alle prese con le tue lezioni di sax, ci sentivamo uniti da innumerevoli difficoltà; Antonio non era ancora nato, d’accordo, ma eravamo saldi, tanto vicini che non vi era luce capace di separarci. Tu suonavi fino a tardi, nell’appartamento al terzo di piano in via Gioacchino da Fiore. Te la ricordi la faccia che faceva quel cretino del tuo professore, ogni volta che partivi con i tuoi assoli? Io trattenevo a stento le risate, poggiato in un angolo della stanza, in una porzione di appartamento in cui il disordine del Brunetti sembrava divorare l’aria, proprio accanto a quella locandina dell’ultimo concerto di Duke Ellington che gli invidiavamo tanto, e che quel borioso aveva avuto in regalo, chissà come, da un suo parente di Bologna. La lezione non finiva mai prima di mezzanotte e tu dentro il tuo cappotto chiaro, con il volto rintanato nel bavero fino al naso, ché gli inverni ti sono sempre stati un po’ antipatici, e il Selmer da cinquecentomila lire dentro la valigetta. Non smetterò mai di suonare, dicevi mentre mi stringevi il polso; le mani me le lasciavi sempre libere nella speranza che le mie dita, in una maniera o nell’altra, ti scoprissero la pelle con una nuova carezza. Poi l’estate della vita, a differenza di quella del tempo, che tardi o presto ritorna, ci abbandonò. Sentimmo il desiderio di metterci in regola, di inquadrarci in un lotto specifico d’una città che non era la nostra, e tu rimanesti incinta. Credo che Antonio non ti abbia mai sentito suonare. Avverto un tic sul lato sinistro delle labbra. Non è ozio, nessuna passività, Loredana. Fai finta di avermi dimenticato, mi sputi sul collo questa tua meraviglia, aspra, condita con una punta di rassegnazione domenicale. Tutto è così lento ormai, vorrei risponderti; ma non parlo, ancora. Mi conto le dita in tasca, e desisto dal raggiungere qualsivoglia riconciliazione. Vorrei schiaffeggiarti; il tuo viso, così, si abbinerebbe maggiormente alla moquette. Strisciante sul pavimento, implorandomi di fermarmi, torneresti a sentirmi davvero, forse. Io intanto muoio, e decido di star zitto. Tu ti alzi soltanto quando smetti di sperare ancora un altro po’. Ho letto che vi sono crepe anche sul fondo del mare; ricordo di aver pensato che allora l’acqua servisse a nasconderle: mi vergognai di aver ragionato in maniera così infantile. Invece poi tutto mi fu chiaro, una sera, anzi, quella sera. Eri andata da Antonella: una birra fra amiche e qualche disco e del ghiaccio intinto nel whisky. Rincasasti poco dopo mezzanotte. Io ero già a letto, sebbene non riuscissi ad addormentarmi. Mi lanciasti addosso le calze, facevi baccano, canticchiasti persino qualcosa in bagno, un motivetto in maggiore con una voce che non ti riconobbi. È stato bello stasera, quattro parole, e poi spegnesti la luce. Le coperte, come le onde del mare d’Irlanda, si richiusero sulle nostre crepe. Capisci, Loredana? È questa casa, il nome sul citofono, l’indifferenziata dei venerdì: camuffiamo gli squarci, noi spostiamo la vita. Cerco la tua mano, rinsavito: ora posso sfamare cento, mille interrogativi; ma tu, in perfetta armonia col mondo intero, hai scelto te, come unico argomento, e sei andata in salotto. E io spero almeno che la penna non scriva, mentre sulla parete, un ridicolo pulcino bordeaux, spunta da un orologio a forma di uovo. fonte: nucleokublakhan.it Ph: Roberta Scardamaglia

  • L'ombra più corta

    Mario mi ha detto che il pavimento oggi faceva più schifo del solito; io non mi offendo, anche quando alza la voce davanti ai clienti e mi dice brutte parole che non sempre capisco. Io non mi arrabbio mai, perché Mario è buono con me, forse è l’unico amico che ho. Mario non puzza, però nemmeno sa di profumato. Riesce soltanto a coprire il sudore, perché è un uomo che lavora tanto, e il suo non è un lavoro leggero. Tutte le notti in piedi a dire sì a qualcuno, a dire no oppure a stare attento a qualcun altro. Sì, perché qui è più difficile di notte, anche se c’è meno gente, perché chi viene di notte si porta un’ombra lunga dietro, che rimane per metà fuori dalla sala. Di notte le persone sono più lente, smettono di correre. continua su Narrandom.it illustrazione di Rebecca Fritsche

  • Dell'inverno in Boemia

    Il fresco che raggiunge Horní Planá durante i primi giorni di agosto sa di giustizia: un atto purificatorio che decapita le pulsioni sessuali, riportando la temperatura d’un uomo a un valore più socialmente accettabile. Slávek dalla barba a punta… e la tua bettola con quel suo bancone gelido: è lì che, quasi ogni sera, deposito la mia carcassa, come fosse l’ultima frontiera tra il me del qui e ora e del colui che mai sarà. Svernare in un anfratto dimenticato della Boemia, chi l’avrebbe detto... io che avevo progetti arditi, persino per uomini migliori di me; ora invece ecco spegnermi in un tiepido sorriso dinanzi alla cortesia di Petr, che agghinda la mia mano, ogniqualvolta ne rimane orfana, di un nuovo bicchiere di Becherovka. Scappato da Praga, allontanato a tempo indeterminato dal partito; troppo incline al confronto e all’apertura verso il diverso, connotato dell’imperfetto comunista… Petr, il canuto amico della mia senilità: conosce il silenzio dei miei occhi, percepisce quando proietto davanti a me i ricordi della capitale, delle lotte, della mia vita precedente (un racconto a lui sconosciuto, come legna arsa su focolari intorno a cui si tramandano fiabe di antichi eroi) e con grazia sorprendente, per un uomo d’una tanto misera estrazione culturale, sfuma lontano: mi ama con rispetto. Nel nulla che anticipa la fine del mondo, in una desolazione divenuta introspettiva che apre lunghi squarci nell’ego e insanabili ferite sull’avvenire, ecco che Ti materializzi… «Non starai bevendo troppo?» ed è calda la tua mano mentre il rosso intinto di sangue rappreso che delimita le tue labbra mi reclama, mi tiene ancorato ad una diversa sobrietà. Sei piena, Nelinka, in te vive quest’isolata campagna, ne racchiudi le asperità e le contraddizioni. Mi squadri come se cercassi su di me segni di una nuova vecchiaia: un filo bianco di più o una ruga sfuggita ai raggi di quel camino dove, da quando mi hai accolto in casa tua, ti offri a me senza remore, dapprima per una tua congenita disposizione alla sottomissione e, soltanto in seguito, accogliendo la nascita d’un sentimento non più coercitivo. Lasciavi che il mio seme ti morisse dentro, visto che le tue ovaie erano rimaste mute a causa d’una malattia contratta quand’eri piccola… e piccola tornavi dopo aver finito, chiedendomi di raccontarti di Praga, e della Moldava che carezza il ventre del Ponte Carlo nelle sere d’autunno. «Nelinka, mi sei cara oltremisura...» e provo a sfiorarti la guancia. Eviti la carezza, la pudicizia è l’ultimo segnale di una fanciullezza mal vissuta, e mi dedichi un ultimo sguardo, pieno di affetto. Tu cerchi in me, persino in questo momento, una guida, un esempio; hai bisogno di credere in qualcosa di più grande, di più totale: l’amore per un singolo uomo, per quanto valido possa apparirti, non può reggere il confronto, svanirebbe (come le sagome delle navi quando abbandonano Vladivostok… ah, l’avessi vista insieme a me, la grande madre Russia!) dinanzi alla grande bandiera, sotto la quale mille anime hanno una voce sola! Scuotesti il capo, abbassasti la guardia. E Petr fu lesto a passarmene un altro. Tu guardavi colui che un tempo aveva comandato e deciso, ridotto adesso, in un presente che non lascia spazio ai sogni, ad anonima unità, scissa dal fine ultimo. Non essere triste, dolce anima! ora sono pronto, possiamo tornare a casa… Gli occhi dei presenti mangiarono, avidi, le tue forme generose, quelle tue cosce salde e bianche come il marmo delle statue. Non ebbi il coraggio di affrontarli, recitai semplicemente la parte dell’ubriaco e mi lasciai traghettare via da te e da Petr, delegando ai vostri cuori, più gonfi del mio, ogni sorta di responsabilit«Dormi adesso» e mi lasciasti, in nome della promessa d’un ritorno, la forma delle tue labbra sulla mia fronte. Lenzuola bianche a perdita d’occhio, le proporzioni alterate dal liquore: in linea retta, immaginando di unire il capezzale alla finestra che dava sul fiume, mi lasciai, seppur in modo fugace e timoroso, trasportare dal silenzio della campagna, dalle distese che a sud portano fino alla fattoria di Boleslav (nemico della Rivoluzione, preferiva parlare ai maiali, che a differenza degli uomini non han colpe). I tuoi seni, Nelinka, non chiedo altro! ma non sono ancora perduto del tutto nel sonno, avverto chiari i bisbigli che provengono dall’anticamera e inizio a toccarmi. Ho sempre saputo, Nelinka… il tuo petto ora colma le mani di Petr, la tua lingua esplora la bocca del contadino con una voracità a me sempre negata. Un tonfo, qualcosa è caduto: Petr ti sbatte contro il muro mentre tenti, goffa, di gemere sottovoce. Non vi odio, amici miei: siete ciò che di più genuino mi sia rimasto ormai… i russi domani ci invaderanno, è inevitabile, in nome d’uno status quo che non ammette variazioni sul tema. Potrei partire stanotte, raggiungere Havel, Igor e gli altri compagni che sarebbero felici di riabbracciarmi; potrei morire accanto a loro, e avrei il mio nome, per sempre, fra i martiri della Primavera… ma non sono Dubček, e mai lo sarò; la differenza di potenziale tra ciò in cui credo e ciò verso cui oso: questa è la mia colpa più grande… perciò adesso, dolce Nelinka, sbrigati a farlo venire, ché io ho già finito: le lenzuola, tra macchie di cellule sterili e voluttà d’animale, devono essere lavate; un sole estivo, noncurante del sangue che giungerà da nord, domani le asciugherà. fotografia di @robirosca

  • Aprile

    Lo sentii uscire. Non mi diceva più dove andava. Nei nostri pomeriggi, trascorsi in quello che sembrava essere il mondo intero, non vi era mai stato spazio per i segreti, per i silenzi. Le estati viaggiavano sul vago chiarore dell’acqua. Avevamo costruito lì il nostro rifugio, davanti a un fiume. La terra edificabile può riservare opportunità inaspettate; basta possedere la voglia, la tenacia di afferrarle. Una casetta adorabile, una cucina in stile liberty, con un grande tavolo rifinito in legno al centro della sala. A destra, la luce entrava da una finestra, che a sua volta, spalancava il sipario verso colline che ci separavano dalla città più vicina. Piccoli raggi zigzagavano sulle varie pietanze durante i pranzi fra amici e familiari. Suppellettili, soprammobili e centrini; un sogno fatto di carne, poggiato sulle cose. Abbracciavamo l’avanzare degli anni con carezze che capivamo soltanto noi due. Un matrimonio subordinato alla nostra unione. Sapevamo perfettamente dove iniziavano le identità individuali di ognuno, e avevamo imparato a unirle sotto le coperte. Due anni dopo esserci sposati, giunse la prima vera crisi, fu tremenda. Lui era diventato sfuggente, il suo lavoro lo costringeva a trascorrere settimane lontano da me. Quando rientrava era taciturno. Fissava gli spazi bianchi fra le pagine di un libro, o stuzzicava continuamente i ceppi nel camino, attratto dai ghirigori delle scintille impazzite. Le notti si susseguivano fra sonni che sapevano di attesa. Il proprio corpo, senza un altro che lo riconosca, si giunge a sentirlo estraneo. Un involucro entro cui le parole non sanno più tingersi di comunicazione e temi il pensare, anche le più innocenti congetture. Trascurai mia madre e gli amici che, fino a quel momento, avevano rappresentato la totale onniscienza della mia emotività. Fu proprio davanti al camino, tra due bicchieri di rosso e una cena lasciata a raffreddarsi sul tavolo, che trovò il coraggio di confessarmi il suo tradimento. Gli occhi di un uomo pentito sono uno spettacolo che, se non hai mai visto, non puoi saper raccontare. Lui sentiva insopportabile l’idea che io sarei riuscita a darmi la colpa di tutto. «È stato solo sesso, per quanto possa valere.» e lo disse guardando una coperta poggiata sulla sedia. Ma io ero lì, in piedi davanti alla sua vergogna. Ebbene superammo anche quello e ci sentimmo ancora più uniti dopo esserci riusciti, perché sul rispetto, su ciò che erigi su di esso, puoi poggiare anche le sventure più schiaccianti. I macigni smetteranno prima o poi di rotolare e se non ti hanno investito, ne avrai fatto riparo, scudo. Tornai alle mie mani. Non stavano mettendo in ordine, scambiavano soltanto la collocazione di calzini con altri calzini. La valigia non perdeva nulla del proprio peso. La tenda ondeggiava dolcemente, sulle note di un aprile stranamente freddo. Aveva chiuso la porta. Era andato via senza fare il minimo rumore. Una lacrima andò a baciare la foto sul mio passaporto. La camera da letto si trovava proprio in fondo al corridoio, la cui porta, quando era chiusa, veniva illuminata dai flebili raggi del primo pomeriggio. Oltre la soglia mi giungevano segnali solidi, fermi: stava disfacendo le valigie; il viaggio con le sue amiche era stato rimandato. Canticchiava, mia moglie. Le bastava quella casa, per sentirsi ispirata. D'altronde, qui lei ci era cresciuta; una casa un po’ troppo scura forse, visto che già dopo pranzo si rendeva necessario affidarsi alla luce artificiale; ma la sentiva sua, come un ponte immaginario che la trasportava ogni volta al presente, senza mai tagliare il cordolo che la riportava all’infanzia. E le bastavo io, l’uomo, il compagno, il bersaglio di un sentimento tramandato, più che provato, per via imprinting, di generazione in generazione. Non sfiorai nemmeno la maniglia. Dovevo uscire. Una volta fuori di casa, regalai un fugace sorriso al cane della vicina, e capii che il mio matrimonio era finito. pubblicato nel numero 113 della Rivista de La Masnada SITO UFFICIALE http://lamasnada.it/

  • In risposta a Làszlò

    Amante garbato, mi presento al cospetto della vostra indolenza. Nel tenue sospiro che sa trattenere in sé la meraviglia, ospito un mostro. Lo sento pregare. Si agita, incauto. Non prova vergogna nello straziarmi. Io e te, come due vele, di vento assetate, mentre il grembo materno non significa niente. T’avessi almeno zittita. La bellezza imperitura risiede nella fine: è un’ombra che crea la luce. Tu rivestiti, nel moto inverso della lentezza di questo coito disgraziato. Sei già andata via, lungo strade che richiamano il tuo puzzo? Invalicabile splendore del già passato, siamo piedi senza corpo. Devoti all’obbedire, più che all’ubbidienza. E la porta di questa stanza, intonata alle mura della nostra generazione, è solo l’ennesimo inutile tentativo, di codificare l’amarsi a condizioni umanamente comprensibili. Non dimenticare il cappotto, e abbraccia quel continente che rende cieca la tua fica. Io ho infiniti silenzi che mi attendono. Percepisco il rumore, non sei più tu, sei altrove, nel non qui, in un indefinito spazio di tristi e calcolati specchi. Non mi rimango che io, nella vigna che tiene stretto il tuo ultimo rumore: una serratura abbraccia il proprio dovere, o è un ti amo, sussurrato nel quadrato di un lurido ascensore? Mi sfugge il concetto. È il mio corpo, la mia zavorra, che m’impedisce di coglierne la differenza. pubblicato nel numero Zero della Rivista NKK ORDER NOW https://nucleokublakhan.it/rivista-nkk/

  • Tassidermia

    Ieri ho visto morire mia madre, lì accanto, dove poni con imperdonabile attenzione i tuoi sorrisi, nel centro delle piaghe che le parole lasciano quando evaporano. Le mani degli uomini hanno dita arrotondate, sicché possa scivolar loro via la delizia dei contorni, quel loro insignificante sentirsi “uomini”, nell’attesa di un ennesimo tramonto dato in pasto alle colline. I miei sogni mi temono, credo si nascondano nella zona d’ombra posta dietro gli orecchi, e tu mi chiedi come fai a vedere tutto questo? nell’intento di smuovere un cielo che sa d’appartamento. Infiniti centimetri di noia ci dividono e, nell’insana attesa che porta alla decomposizione di ogni aspettativa, procrastino il tuo profilo: ricami ancora fiocchi argentei per i miei fallimenti, sempre troppo numerosi? I figli per cui non abbiamo avuto il coraggio, negati e confusi con il senso del dovere: una somma tendente al nulla, una fiamma che non genera fumo. E così la città mi si costruisce attorno, mentre indeciso tra la manopola dell’acqua calda, dell’acqua fredda (tra il blu e il rosso non colgo sfumature), posso soltanto decidere se morire in piedi, sotto le stelle, o se rinascere in un vecchio che dedica l’ultimo sorso a chi, venuto dall’est, sa contaminargli adagio i polmoni con il profumo del tempo che ancora non è. pubblicata nel numero Uno della RIvista NKK ORDER NOW https://nucleokublakhan.it/rivista-nkk/ Ph: Roberta Scardamaglia @robirosca

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